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Truk

Truk
di Roberto Rinaldi

Immaginate di volare sopra il grande Oceano Pacifico.

Immaginate di affacciarvi al finestrino e spingere lo sguardo lontano, di lasciarlo correre sul blu della superficie del mare, fino a scoprire una scintillante cintura di sabbia candida e palme dal verde brillante che imprigiona una laguna dal colore dello smeraldo. Una immagine di paradiso di questo Oceano che nel corso dell’ultima guerra divideva ed al tempo stesso univa due tra le maggiori potenze militari impegnate nell’orrendo conflitto. La grande America e l’agguerrito Giappone si affacciavano da sponde opposte sull’Oceano Pacifico, ed entrambi attraverso l’oceano lanciavano le flotte da guerra, gli uni volgendo le prue verso il sole del tramonto, gli altri verso quello dell’alba.

Miglia e miglia di acqua salata dividevano le due superpotenze, ma al tempo stesso rappresentavano una via grande e sicura per portarsi reciprocamente offesa. Splendidi atolli corallini divennero perciò importanti teste di ponte, munite basi militari in cui si ammassavano uomini e mezzi, munizioni ed armi, medicinali e vestiario, destinati alle truppe o alle navi da combattimento che incrociavano al largo, alla ricerca del nemico. È per questo che uno di quegli atolli che ora osserviamo dal finestrino dell’aereo, un giorno doveva avere l’aspetto dell’inferno, avvolto da fuoco e fiamme, devastato dagli orrori di una battaglia senza quartiere. Siamo nell’atollo di Truk, nel mare della Micronesia, una cintura di corallo che racchiude una decina di isole coperte da una giungla fittissima e le acque tranquille e poco profonde di una laguna interna. Le oltre cento miglia della circonferenza dell’atollo offrivano un formidabile riparo alla flotta mercantile giapponese di appoggio alle operazioni militari.

Decine di navi alla fonda, cariche all’inverosimile attendevano di smistare il loro cargo, protette dai coralli dell’atollo dalla furia delle onde e dai cannoni da eventuali incursioni aeree americane. In quei giorni Truk sembrava davvero inespugnabile: solo quattro pass aperte nella barriera consentivano l’accesso a quelle acque tranquille. Pass guardate da lontano da potenti cannoni a lunga gittata in grado di distruggere qualsiasi nave nemica avesse tentato di forzare l’ingresso attraverso uno di quei passaggi obbligati. Intanto cento batterie contraeree controllavano i cieli, mentre un ingente numero di caccia era pronto al decollo per intercettare un’eventuale attacco di bombardieri nemici. Eppure proprio su questo obiettivo apparentemente inespugnabile si concentrò l’attenzione dell'”Intelligence” americana.

E la notte del 17 Febbraio 1944 il paradisiaco atollo si trasformò in un vero e proprio inferno. Una violentissima incursione di caccia Hellcat si scagliò contro gli aerei pronti al decollo e contro le postazioni antiaeree, seguita da un immane attacco di bombardieri che con tonnellate e tonnellate di bombe cancellarono l’atollo di Truk dallo scacchiere bellico del Pacifico. Le difese furono annientate e fu colato a picco tutto il naviglio della grande flotta mercantile con il suo prezioso carico. Le navi, ancora alla fonda, colarono a picco sul posto, nella medesima posizione in cui si trovavano.

Costrette dalle pesanti catene delle ancore, inchiodate in quel punto preciso da una micidiale grandine di bombe, siluri e proiettili.
1300 tonnellate di bombe furono lanciate nell’attacco.
416 aerei giapponesi e 60 navi furono perduti, 423 costruzioni ridotte in macerie.
Il 15 Agosto del 1945 la base giapponese di Truk capitolò, e da allora venne dichiarata “off limits”.
Per 25 anni l’atollo di Truk venne dunque dimenticato dal mondo.

Per tutto quel tempo le navi dell’antica flotta giapponese riposarono sul fondo, mentre la vegetazione tropicale sferrava l’ultimo attacco alle fortificazioni giapponesi inglobandole completamente e cancellandone quasi ogni traccia. Intanto, sul fondo della laguna, erano i minuscoli polipi di corallo che aggredivano le lamiere dei bastimenti che offrivano loro un substrato rigido e lontano dal fango del fondo da colonizzare. Per venticinque anni, dunque, Le acque dell’oceano conservavano i navigli affondati nelle medesime condizioni in cui si trovavano nei tragici giorni dell’affondamento. E quello stesso scenario si presenta oggi di fronte ai nostri occhi. Le navi adagiate sul fondo, con la catena dell’ancora che esce dall’occhio di cubia e si perde lontano, sulla sabbia, oltre i limiti della visibilità. Le stive ricolme di merci, di carichi accuratamente sistemati, oggi nelle stesse posizioni in cui furono disposti oramai più di 50 anni fa.

Suppellettili sono sparse ovunque sul fondale, sulle strutture dei ponti devastati dalle bombe. Tutto è come quel giorno di oltre cinquant’anni fa, tutto come alla fine di quella tragedia, quando la nave lentamente lasciava la superficie. Mentre l’atmosfera era sconvolta dalle fiamme degli incendi, dal fragore delle esplosioni, dalle urla degli uomini impazziti dal terrore e la nave si inabissava, appoggiandosi dolcemente sul sedimento del fondo, in un mondo improvvisamente di silenzio e di quiete. Tutto è come allora, è vero, ma con una differenza: qui sembra che la natura si sia impegnata ad adornare questo che può essere a ragione considerato un vero e proprio sacrario, un monumento in ricordo di tutti quegli uomini che in quei giorni di guerra persero la vita.

Oggi possiamo visitare queste antiche navi affondate. Non serve essere subacquei espertissimi. È sufficiente aver conseguito un qualsiasi brevetto di sub per lanciarsi nella coinvolgente avventura dell’esplorazione di questi antichi relitti. Le profondità sono sempre piuttosto limitate. Le acque della laguna ci proteggono dalle onde e non sono interessate da intense correnti.

La visibilità è di solito ottima e la temperatura piacevolmente elevata. È inutile negare che lo spettacolo offerto da una nave affondata è comunque uno spettacolo triste, talvolta angosciante. E questa fu la prima sensazione che provammo mentre pinneggiavamo verso l’alto picco di carico della Fujikawa Maru. Il suo profilo ci è apparso attraverso l’acqua carica di plancton.

Tetro, lontano, grondante di alcionari che si lasciavano penzolare, aggrappati alle strutture. Ma fu sufficiente avvicinarci un pochino, illuminare da vicino le lamiere con un potente faro subacqueo, per lasciarsi andare alla meraviglia più totale, all’incredibile spettacolo offerto dai brillanti colori delle creature marine. Sfumature di giallo, di rosso, di porpora, che si sommavano le une alle altre, che dipingevano mirabilmente uno scenario altrimenti cupo e monocromatico. Rapidamente ci abituammo a questa strana contraddizione, a questi colori di gioia che convivono con queste testimonianze drammatiche. Costruzioni di corallo modificano le strutture metalliche, ne divengono parte, ne stravolgono le forme.

Ci siamo trovati a pinneggiare sui ponti delle grandi navi. Ingombri di lamiere contorte, di argani, di cavi d’acciaio. E ancora i vividi colori delle spugne, dei coralli, degli alcionari che avvolgevano le battaiole, le bitte, i picchi di carico. Affascinati da questo incredibile ed insolito ambiente, ci siamo trovati a nuotare lungo i corridoi, ad affacciarci all’interno delle navi attraverso gli oblò. Un giorno esplorando una nave siamo giunti all’altezza della plancia di comando. I vetri delle grandi finestre non erano più al loro posto e così ci siamo potuti agevolmente spingere all’interno.

Di fronte a noi abbiamo trovato il telegrafo di macchina: testimonianza di un antico modo di andare per mare. A quel tempo azionando la leva del telegrafo si trasmetteva alla sala macchine l’ordine di rallentare i motori, di accelerarli, di fare macchina indietro. Oggi, sulle navi moderne, l’ufficiale al comando può agire direttamente sui potenti motori mediante comandi riportati in plancia. Dal ponte di comando ci siamo lasciati andare verso il basso. Con attenzione siamo scivolati sempre più in profondità attraverso stretti passaggi, nuotando a testa in basso attraverso le anguste scale d’accesso.

Durante il percorso la luce della torcia ha scoperto resti di ceramica, piatti interi, una grande lanterna per terra, in un alloggio. Continuammo a spingerci sempre più in profondità verso l’interno del relitto, a scendere decisi sempre più verso l’oscurità, attraversando cabine e corridoi. Fino a quando non fummo attratti da una luminosità lontana.

Istintivamente ci siamo avviati in quella direzione, ritrovandoci ben presto all’interno di una enorme stiva. La luce filtrava dall’alto scomponendosi in fasci di raggi azzurrognoli. Ci muovevamo cautamente, attenti a non sollevare con le pinne o con un movimento maldestro la coltre di sottilissimo limo che ricopriva ogni cosa e che avrebbe in un attimo azzerato la visibilità. Ad un tratto un bagliore attirò la nostra attenzione: una grande quantità di bottiglie si trovavano ammassate in un angolo.

Bottiglie di vetro marrone, ancora al loro posto nelle casse nelle quali erano state stivate, impilate le une sulle altre. Più la altre bottiglie, più piccole. Di certo bottiglie di medicinali, come confermato più tardi dalla scoperta di casse colme di bendaggi. Attraversammo una paratia e la natura del carico cambiò completamente.

Ecco qui casse e casse di munizioni, di proiettili di ogni tipo. Un carico enorme che ci da un’idea dello sforzo che il Giappone stava mettendo nella guerra. Poco lontano scopriamo la fusoliera di un caccia Zero, con le ali smontate e appoggiate in terra a breve distanza. Ci affacciamo all’interno della cabina del pilota, osserviamo il sedile, gli strumenti di bordo, ancora tutti al loro posto. Ma ancora un raggio di luce ci attirava verso un punto isolato nell’oscurità. Superammo un paio di corridoi per arrivare ad affacciarci da alcune grandi aperture nella fiancata.

Fu come affacciarsi su di uno splendido giardino da una finestra incorniciata da grappoli da alcionari colorati. Il rassicurante azzurro tenue del mare dei tropici ci attirava irresistibilmente. E così passammo attraverso la finestra e uscimmo dalla nave, per sorvolarne il relitto, ormai divenuto un vero e proprio reef corallino e, lentamente avviarci verso la superficie. Gli oggetti più bizzarri da cercare sui relittiSe un giorno avrete la ventura di trovarvi a fare immersione sui relitti della laguna di Truk, non dimenticate di aguzzare la vista, alla ricerca di quello che può essere il reperto più bizzarro.

Nulla è stato toccato dopo i naufragi, tutto è ancora al proprio posto. Un po’ ovunque troverete maschere antigas, munizioni in gran copia, automezzi. Ma non stupitevi di trovare tazze e piatti, bicchieri, utensili da cucina. Noi ci siamo spinti nella sala macchine e abbiamo trovato un’officina. Attaccati al muro, ancora al proprio posto, c’erano martelli, cacciaviti, chiavi inglesi.

E poco lontano un tornio ed un trapano a colonna. Ci siamo stupiti di trovare un manometro con scritte i Italiano: Fratelli Martelli, era scritto sul quadrante dello strumento. Ma quello che ci ha sorpreso di più è stata la scoperta di una pila di vecchi dischi a 75 giri e di un buon numero di spartiti musicali. Datevi da fare, allora, alla ricerca del reperto più curioso, ma non dimenticate: i fondali della laguna di Truk sono considerati un vero e proprio Museo.

Guardare e non toccare assolutamente nulla, è dunque la regola principale.

Come, dove e quando

Clima caldo umido.
Il periodo ideale per recarsi a Truk è quello che va da settembre a maggio.
Due momenti ideali: settembre e ottobre e febbraio e marzo.
Da evitare il periodo da giugno a settembre, quando troveremo acqua torbida e piogge abbondanti.
Documenti: per i cittadini italiani è sufficiente il passaporto con sei mesi di validità.
Lingua: correntemente parlato l’inglese, anche perché l’isola è oggi sotto il controllo americano. Americane anche tutte le strutture turistiche.
Valuta: dollaro americano.
Due o tre resort si trovano sull’atollo, che non offre nulla in particolare. La soluzione migliore per visitare i relitti della flotta giapponese è quella di partire in crociera con il “Truk Aggressor”, un bellissimo yacht concepito proprio per soddisfare le esigenze dei sub. Il consiglio migliore per ammortizzare un viaggio così lungo è quello di concedersi una settimana di vacanza tradizionale in albergo in una qualsiasi isola micronesiana come Palau, Yap o Carp, e poi imbarcarsi per una crociera di cinque giorni sull’Aggressor.
Il modo migliore per giungere a Truk è via Manila e Guam. Il Truk Aggressor è una barca attrezzatissima per le immersioni e ad esse specificatamente dedicata. Non occorre avere grande esperienza per immergersi sui relitti di Truk.
All’interno della laguna le acque sono sempre relativamente calme, non avremo mai dunque problemi di mal di mare.
Per le immersioni è consigliato portare una muta leggera e maschera e pinne personali.
Sono disponibili a noleggio erogatori bombole giubotti.
A bordo è possibile anche affittare corredi fotografici completi e sviluppare subito le immagini riprese.
Sconsigliato recarsi a Truk con l’intenzione di frequentare un corso d’immersione, come è invece possibile fare in altre località tropicali.

+39 0721 65770 Preventivo